Le incessanti e rapide variazioni del contesto in cui le organizzazioni produttive e sociali si trovano ad operare impongono una conoscenza continuamente rinnovantesi dei fattori di mutamento, di adattamento, di innovazione. La globalizzazione, inoltre, fa affiorare incessantemente nuove prospettive e altrettanto nuove problematiche. L’approccio al mondo del lavoro impone una varietà differenziata di conoscenze, così che la professionalità di ciascun operatore sia, per il presente e sempre più per il futuro, un mix di versatilità e di affidabilità, qualunque sia il livello occupazionale. Ecco come le competenze, intese quali capacità di utilizzo elle conoscenze e della loro trasformazione in azione nell’ambito degli specifici contesti operativi, e studiate nelle loro parti componenti, possono dare un valido aiuto a chi si trova ad operare in ogni struttura lavorativa, sia che abbia mansioni di dirigenza che di esecuzione.
Le organizzazioni produttive e sociali odierne si trovano ad operare in contesti marcati da imprevedibilità ed incertezza, da innovazioni continue, da situazioni di “varianza” esasperate. Sociologi ed economisti autorevoli, quali Boudon, De Masi, Giddens e Gallino, sottolineano come tale aspetto di discontinuità sarà dominante nel futuro prossimo e, pertanto, come si debba attenuare l’aspirazione alla stabilità e prevedibilità degli eventi, condizionati da elementi la cui influenza reciproca potrà generare diversi, e sicuramente non lineari, scenari d’azione (cambiamenti nella struttura economica, scoperte ed invenzioni scientifiche, applicazioni tecnologiche, emergere di comportamenti e bisogni nuovi o inaspettati). Il mutamento si propone non come un evento, bensì come un processo continuo; esso rappresenta una condizione esistenziale ed esperienziale che accomuna gli individui e le organizzazioni, ponendo ad entrambi problemi analoghi, quali il passaggio da situazioni di rigidità e certezza a situazioni di flessibilità ed incertezza. Le organizzazioni sono portate a rivedere continuamente i propri contesti tecnologici e di mercato e, contemporaneamente, a ridefinire gli spazi di azione degli individui, le modalità di costruzione e di applicazione dei saperi, i confini delle attività.
Diventa di importanza cruciale il concetto di adattamento che, nel caso delle organizzazioni come degli individui al lavoro, è stato declinato in termini di “capacità di manifestare una maggiore flessibilità per rispondere all’aumentata complessità dei contesti di riferimento”. La flessibilità è da intendersi come capacità delle imprese di riorganizzarsi rispondendo in tempi stretti alle fluttuazioni dell’ambiente; flessibilità verso l’esterno, nel senso di previsione e pianificazione aziendale e flessibilità all’interno, nel senso di operare in modo appropriato in differenti situazioni applicando nuove tecnologie di prodotto o di processo, o nuovi assetti organizzativi. Emblematica, al riguardo, la riflessione di Morin attorno alla complessità, concepita come “un pensiero capace di cogliere contemporaneamente diversi livelli e metterli in relazione tra loro”. Accanto alla flessibilità, la creatività è una risorsa competitiva attribuita alle organizzazioni, ai gruppi ed agli individui. Il futuro è sempre più difficilmente prevedibile ma, paradossalmente, è sempre più possibile formulare opzioni di scelta che indirizzino la progettazione del futuro; non a caso, si parla di un paradigma dell’auto-creatività che si declina in termini di inventare e realizzare futuri. L’innovazione si pone come necessità, poiché solo mutando le organizzazioni possono sopravvivere e, al tempo stesso, viene a costituire un fattore di vantaggio competitivo. I tre elementi che influenzano più intensamente le dinamiche del mutamento sono: l’introduzione di tecnologie di prodotto e di processo radicalmente diverse rispetto ad un pur vicino passato; il connesso ridisegno delle strutture organizzative; le modalità di progettazione e interpretazione del modo di lavorare e delle tipologie di contributo umano all’organizzazione produttiva e sociale. Le strutture organizzative si modificano all’insegna di un’accresciuta complessità; tale complessità non si manifesta, però, in una maggiore complicazione delle strutture stesse, che al contrario si semplificano, ma in una moltiplicazione dei livelli di azione e in una diffusione in più ambiti di tematiche precedentemente dominio di settori ben precisi. La complessità non riguarda, dunque, la struttura, bensì l’azione dell’organizzazione, l’agire comune e simultaneo di più funzioni.
Da un lato, si è ridisegnata la compagine organizzativa appiattendola e riconsiderandone i confini con il suggerimento di strutture a “rete” e, dall’altro, ci si attrezza per essere in grado di interpretare quegli elementi di mutamento che non si dominano direttamente. Agli attori organizzativi si chiede non solo di tollerare, ma anche di promuovere ed anticipare il mutamento, mettendo in campo risorse cognitive, capacità progettuali e creative. Accornero si esprime in termini di passaggio “dal Lavoro ai lavori” inteso come svolta epocale e spiega la conseguente frammentazione del lavoro – sempre più differenziato dal punto di vista della professionalità, della tutela, della durata – sulla base del consolidamento di almeno quattro processi: – la crescente terziarizzazione dell’economia; – la riorganizzazione dei sistemi produttivi e l’emergere di nuovi sistemi di produzione incentrati sulla flessibilità e sulla qualità del processo e del prodotto; – le trasformazioni del modo di lavorare, rese possibili soprattutto dall’utilizzo pervasivo delle tecnologie informatiche e microelettroniche; – la segmentazione del mercato del lavoro, che si accompagna a nuove forme di differenziazione e stratificazione sociale. I processi menzionati presentano uno stretto legame col fenomeno della globalizzazione, che si traduce nell’accelerazione e nell’aumento di consistenza dei flussi di capitali, beni, servizi, persone fisiche, informazioni, conoscenze, idee, che si muovono in circuiti sovranazionali sempre più liberamente; quest’ultimo aspetto risulta strettamente connesso con il declino dei costi dei trasporti e delle comunicazioni portato dal progresso tecnologico.
L’ impresa post-industriale è poi caratterizzata dalla internazionalizzazione: essa definisce le sue strategie ed i suoi programmi facendo riferimento ad un mercato che è oggi globale, planetario. Tale impresa è in grado di definire la propria strategia , quindi di rispondere adeguatamente alle esigenze dei suoi clienti, solo se segue con attenzione e precorre le dinamiche sociali ed economiche del contesto in cui opera. Dal momento che aumentano anche le tipologie degli interlocutori interni ed esterni, si moltiplicano le attività relazionali, le comunicazioni e le interazioni dell’azienda; risulta, allora, sempre più marcata l’interdipendenza dei messaggi interni ed esterni e si verifica la necessità ineludibile di una progressiva integrazione fra comunicazione interna ed esterna. Di conseguenza, l’impresa non può più essere rappresentata come un organismo isolato, ma diventa un’istituzione strettamente interconnessa con gli altri corpi economici e sociali. All’interno dell’organizzazione la natura del contributo umano cambia poiché il consolidato binomio capitale – lavoro, posto alla base dei tradizionali processi produttivi, si è arricchito di un terzo elemento: la conoscenza. In ogni azienda risulta necessario non solo o non tanto produrre conoscenza, bensì elaborare, diffondere e conservare al proprio interno la conoscenza ed il sapere. Alla base di tale esigenza sta il riconoscimento di un irreversibile processo di intellettualizzazione del lavoro, in virtù del quale il contributo umano all’organizzazione è sempre più legato all’intermediazione simbolica, all’uso di nuovi linguaggi e al sapere agito, ovvero alla competenza. Il maggior contenuto di conoscenza necessario allo svolgimento di ogni lavoro impone di rivedere il principio secondo il quale il disegno dell’organizzazione deve prevedere dei luoghi o livelli in cui sia concentrata tutta la capacità cerebrale del sistema; poiché anche le attività definite elementari utilizzano ed inglobano un maggior contenuto di conoscenza e di sapere, le capacità di ragionamento devono essere diffuse in tutta l’organizzazione, anziché delegate ad alcuni suoi settori.
Si afferma il modello organizzativo olografico, che riproduce in ogni sua parte il disegno dell’insieme ed è caratterizzato da quattro principi, efficacemente illustrati da G. Morgan in un suo testo del 1999 ( “Images. Le metafore dell’organizzazione”): la ridondanza delle funzioni, la varietà necessaria, la minima specificazione critica e l’apprendere ad apprendere. Una conseguenza importante dei processi di intellettualizzazione del lavoro, su cui si è soffermato Crozier, è costituita dalla diminuzione della differenza strutturale tra le tipologie di lavoro, che comporta l’intensificarsi delle interazioni tra pari e l’aumento della loro intrinseca complessità. L’organizzazione moderna viene interpretata alla luce della metafora del cervello, che si contrappone alle metafore delle figure meccanicistiche e dei sistemi organico-viventi: l’organizzazione è concepita in grado di attivare azioni intelligenti e di giudicare sull’opportunità di quello che sta facendo, modificando di conseguenza i propri corsi di azione per adeguarli alle circostanze esterne. Sveiby e Lloyd, studiosi del “know-how company”, sostengono che la società attuale dipende sempre più dalle conoscenze e competenze inglobate nei suoi prodotti, nei suoi servizi, nelle sue soluzioni organizzative e tecnologiche. Le trasformazioni che hanno attraversato le imprese a partire dai primi anni Novanta (diminuzione dei livelli gerarchici, abbattimento delle barriere funzionali, delega delle responsabilità) richiedono una forza lavoro intelligente, in grado di comprendere le strategie dell’azienda e di riuscire a tradurle in decisioni appropriate. Il successo del business è oggi basato sul know-how sviluppato e posseduto dalle imprese in cooperazione con le persone che in esse operano. L’organizzazione snella, piatta, corta, rapida, flessibile, processiva e capace di apprendere, riducendo i livelli di mera supervisione e deburocratizzandosi, sostituisce ai tradizionali collanti hard ( la struttura gerarchica ed i job prescritti) il paradigma della soggettualità, ovvero la capacità delle donne e degli uomini di sviluppare autonomia ed apprendimento. Il modello di descrizione/interpretazione del lavoro cui ci si trova di fronte può essere definito “modello emergente” o “lavoratore plus”. Si tratta di una condizione lavorativa nuova, connotata da un forte carattere cognitivo delle attività e dall’alta competenza nell’utilizzo di strumenti tecnologici automatizzati. Al soggetto umano sono richieste capacità creative e di problem solving: le competenze tecniche risultano indispensabili ma non sufficienti, in quanto necessitano di ulteriori capacità comunicativo-relazionali, mentre acquisisce importanza l’etica del lavoro emergente costituita da tratti della personalità e da disposizioni nei confronti delle nuove attività di lavoro. Le competenze di base non si limitano né ai minimi formativi (leggere, scrivere e far di conto) né alle nuove culture basilari dell’informatica, delle lingue straniere, dell’economia e delle scienze organizzative, bensì comprendono una pluralità di elementi che consentano alla persona di porsi in modo positivo in uno specifico contesto storico-sociale, di comprendere le principali dinamiche della vita, di saper esprimere interessi e muoversi in modo autonomo. Si tratta di saperi acquisiti in forma personalizzata, ovvero necessari a delineare un’individualità consapevole, volitiva e progettuale.
Le competenze tecnico- professionali prevedono l’acquisizione delle strutture di base del processo di lavoro, la capacità di padroneggiare gli strumenti propri della cultura lavorativo- professionale, la capacità di interpretare il contesto in cui si opera e di elaborare una diagnosi adeguata, inoltre la capacità di prognosi, di intervento, di verifica/correzione, di sistematizzazione ed accumulazione dei saperi; tutto ciò contrasta nettamente con il principio della prestazione su comando. Oggi diventano fondamentali un complesso di competenze ulteriori, definibili come capacità relative alla dinamica del lavoro in quanto interazione, costrutto dotato di senso, progetto svolto in forma cooperativa; va, a questo riguardo, citata l’attitudine a delineare il proprio processo di apprendimento in forma autonoma, ovvero l’auto-formazione. Una parte delle attese aziendali corrisponde più precisamente ad un orizzonte etico: si tratta di vere e proprie virtù del lavoro, che contemperano l’identificazione con la mission e la vision aziendale, la disponibilità a fare proprio il valore dell’affidabilità e ad assumere profili di responsabilità, la disposizione all’ alterità, la tenacia e la costanza pur in presenza di incertezze e difficoltà, l’attitudine ad attendersi e a valorizzare gli eventi anche se scompaginano il proprio disegno progettuale. Qualità e flessibilità diventano requisiti importanti anche per il lavoratori: a tutti, seppur con intensità diversa a seconda della posizione ricoperta, si chiede di essere adeguatamente preparati ed adattabili alle esigenze dell’impresa, disposti ad apprendere di continuo nuovi compiti. Acquistano sempre maggiore rilevanza le cosiddette “competenze trasversali”, soprattutto di tipo motivazionale, relazionale e cognitivo. Anche a chi occupa le posizioni meno qualificate si richiede un certo livello di professionalità, intesa come mix di versatilità ed affidabilità. Il mito del posto fisso viene progressivamente declinando, mentre aumenta la propensione (volontaria o imposta) a cambiare sovente mestiere e si diffondono forme di lavoro atipiche; da tutto ciò derivano anche maggiore instabilità, insicurezza e precarietà occupazionale. La stabilità del lavoro viene a coincidere sempre meno con quella del posto di lavoro e sempre più con il bagaglio di conoscenze e competenze accumulate nel corso dell’esperienza formativa e lavorativa, spendibili in aziende appartenenti a comparti, branche e, persino, settori diversi. Partendo dal presupposto che, di fronte alla complessità, l’uomo professionalizzato ed informato rappresenta la vera risorsa, mutano anche le filosofie e le pratiche di gestione dei dipendenti, definiti e considerati clienti interni. La battaglia per la conquista del cliente esterno ha, come condizione preliminare per le imprese, la conquista e lo sviluppo del cliente interno; Normann scrisse che “Quel che non si può vendere al proprio personale, non è possibile venderlo neppure al cliente”. Senza il consenso attivo sulla propria strategia e l’iniziativa creativa del proprio personale, non è possibile che una impresa realizzi un successo a lungo termine. Dal momento che all’interno dell’impresa i lavoratori sopportano sempre meno di sentirsi omologati, diventa necessario ricostruire o rinforzare in senso collaborativo e propositivo il clima psico-sociologico interno, al fine di incrementare i risultati in termini di efficacia, produttività, flessibilità, nonché per prevenire fenomeni quali antagonismo, disaffezione, assenteismo. Il lavoro diviene per ciascuno la possibilità di esprimere se stesso ed i suoi valori, la garanzia di una crescita personale oltre che professionale; il lavoro deve implicare qualcosa di più della semplice busta paga. Occorre sempre più attivare un processo di innovazione aziendale che consolidi atteggiamenti positivi e stabilizzanti nel tempo, quali il consenso, la cooperazione, la fiducia e l’integrazione attiva. E’ in corso il passaggio da un modello che privilegia la gestione del personale sui grossi numeri (tecnologia labour intensive) ad un modello in cui diviene altrettanto importante la singola risorsa (tecnologia capital and knowledge intensive). Sono gli esseri umani i più capaci di assorbire la complessità, poiché essi sono in grado di inventare soluzioni nuove, di innovare, di cambiare i termini dei problemi. Per le imprese risulta, pertanto, vitale investire in conoscenza, in esperienza, in formazione, in comunicazione, in circolazione di informazioni: in una parola, investire in professionalità. L’elemento in grado di fare oggi la differenza, il fattore che crea un vantaggio competitivo duraturo nel tempo è la professionalità degli individui.
Le Risorse Umane vanno, quindi, attivamente motivate perché persino un lavoratore molto ben addestrato e veramente abile non può garantire prestazioni eccellenti senza reale motivazione. La motivazione si configura come la passione, la volontà che un individuo esprime nei propri comportamenti per il raggiungimento di un risultato sia in termini quantitativi che in termini qualitativi; essa rappresenta la capacità di andare oltre i risultati attesi manifestando così propositività, generosità, ambizione, inclinazione ad affrontare le difficoltà mediante una piena partecipazione e mobilitazione intellettuale ed emotiva. La motivazione, soprattutto nelle organizzazioni che si occupano di erogazione di servizi, si traduce in orientamento al cliente, in attenzione alle sue aspettative e alle sue richieste nonché in capacità di interpretarne ed anticiparne le esigenze. Psicologi insigni, quali Schein, Maslow, Herzberg, per citarne alcuni, hanno stabilito, sulla base di numerosi riscontri empirici, che esistono forti correlazioni tra la soddisfazione sul lavoro ed i ritardi, l’assenteismo e le dimissioni. Recentemente è stata sottolineata su più fronti la necessità di soddisfare i bisogni di auto-realizzazione dei dipendenti; la gente, per lavorare con efficienza, deve essere stimolata nonché avere l’opportunità di migliorare e progredire, di attualizzare le proprie potenzialità, di sviluppare continuamente se stessa. Il management dell’ascolto, le ricompense e gli incentivi economici, la possibilità di instaurare rapporti interpersonali arricchenti e stimolanti, la maggiore partecipazione alla vita aziendale ed il coinvolgimento nella presa di decisioni strategiche, sono solo alcuni dei tentativi compiuti dalle imprese attuali per responsabilizzare e rendere più soddisfatta, quindi propositiva, la Risorsa Umana. Particolarmente interessante, all’interno di queste argomentazioni, risulta essere la centralità acquisita dal costrutto di competenza, intesa come capacità di utilizzo della conoscenza e di azione in specifici contesti operativi, con diverso grado di problematicità. Con il termine competenza si designa, in sostanza, una caratteristica della persona, mediante la quale essa è in grado di affrontare efficacemente un’area di problemi connessi ad un particolare ruolo o ad una particolare funzione; sarebbe, pertanto, preferibile parlare di persona competente piuttosto che di competenza. La competenza viene dimostrata dalla persona che la possiede tramite performance rese in un preciso contesto organizzativo, di fronte a “giudici” rappresentati da esponenti del mondo professionale di riferimento.
I modelli di gestione delle Risorse Umane basati sui Sistemi delle Competenze, si prefiggono la finalità precipua di motivare, stimolare, responsabilizzare e qualificare i propri dipendenti mediante l’auto ed etero-rilevazione delle conoscenze tecniche e dei comportamenti messi in atto nel momento in cui si ricopre un ruolo organizzativo rispetto ad un profilo di competenze ideale. Nel quadro socio-economico attuale, le competenze rappresentano l’unico elemento stabile su cui si può e si deve investire; esse sono patrimonio intrinseco di un essere umano e, in quanto tale, dell’impresa stessa concepita come un insieme di persone. Da queste considerazioni si evince la necessità di adottare un sistema di rilevazione delle competenze aziendali finalizzato al mantenimento, alla crescita e allo sviluppo delle medesime. Le competenze risultano costituite da conoscenze e capacità. Le conoscenze, assimilabili al sapere, sono nozioni tecnico-professionali ed esperienze di natura professionale acquisibili con lo studio e con l’attività pratica. Le capacità, riconducibili al saper fare ed al saper essere, sono comportamenti organizzativi osservabili e descrivibili; in natura non esistono capacità, bensì comportamenti che, ripetuti nel tempo, consentono di dire che chi li attua possiede una determinata abilità di agire. Le capacità risultano raggruppabili in cinque grandi famiglie o aree: emozionali, relazionali, gestionali, intellettuali, innovative. Quando si adotta un “Modello delle Competenze”, conoscenze e capacità valorizzate dall’azienda vengono raccolte in appositi “vocabolari”, facendo riferimento ai quali hanno luogo rilevazione e valutazione. Le conoscenze vengono considerate specifiche e caratteristiche di ogni singola azienda, mentre si tende a pensare che le capacità si ritrovino sostanzialmente identiche in ogni contesto organizzativo; in realtà, l’immutabilità delle capacità, spesso denominate competenze trasversali, è ipotizzabile solo ad un livello puramente linguistico, poiché anch’esse si declinano in maniera decisamente differente a seconda dei contesti, delle aree, dei settori aziendali. La competenza non può essere trasversale cioè trasferibile tale e quale da una realtà organizzativa ad un’altra; la competenza, in quanto azione complessa in cui il soggetto mobilita le proprie risorse a fronte di un determinato problema da condurre a soluzione, non può che essere specifica e contingente, strettamente legata al contesto in cui viene esplicata. L’identificazione delle competenze da rilevare avviene stabilendo una connessione fra ciò che è necessario sappia fare l’azienda – per realizzare le strategie – e ciò che è indispensabile sappiano fare le persone che operano all’interno dell’organizzazione, in quanto leva critica per la competitività dell’impresa. Una volta reperite le competenze funzionali al raggiungimento degli obiettivi aziendali e determinati i grading, vengono definiti i profili di competenza richiesti ai diversi ruoli; in relazione a suddetti profili vengono realizzate tutte le attività previste da un bilancio delle competenze aziendali.
L’obiettivo della rilevazione delle competenze è quello di dare vita ad una fotografia oggettiva delle competenze possedute dalle persone; lo spirito e scopo ultimo del procedimento risiede nello sviluppo e nella crescita. Non c’è alcuna finalità valutativa della persona né esistono agganci immediati con il sistema premiante: si punta ad una conoscenza finalizzata a capire come sviluppare e valorizzare le competenze. Ogni dipendente è oggetto di valutazione da parte di un suo responsabile, che osserva l’insieme di competenze che egli esprime e traduce in comportamenti; questa fase è successivamente integrata dall’auto-rilevazione che ogni dipendente esprime rispetto alle competenze che ritiene di possedere. La richiesta ai dipendenti di riflettere con autonomia sul proprio bagaglio di competenze vuole favorire l’auto-consapevolezza da parte di ognuno circa le proprie abilità specifiche, in un’ottica di sviluppo e di crescita professionale oltre che personale, ovvero in un’ottica di empowerment. I principi dell’andragogia, enunciati da Malcolm Knowles, sostengono ulteriormente la pratica dell’ auto-rilevazione, affermando che, quando si lavora, non si genera miglioramento senza la consapevolezza personale del punto da cui si parte e che non può esserci apprendimento senza auto-responsabilizzazione sul proprio sviluppo. Le persone che hanno raggiunto la maturità apprendono solo ciò che realmente vogliono apprendere, si applicano solo se motivate a farlo, diversamente dai bambini che si impegnano anche dietro la semplice minaccia di una punizione o la promessa di un premio; il cambiamento e la decisione di apprendere in età adulta devono essere consapevoli e motivati, pena il precoce fallimento. Gli adulti avvertono l’esigenza di sapere perché occorra apprendere qualcosa, prima di intraprenderne l’apprendimento; è necessario aiutarli a prendere coscienza del “bisogno di conoscere”. Gli adulti hanno, inoltre, un concetto di sé come persone responsabili delle loro decisioni e della loro vita. Una volta raggiunto quel concetto di sé, sviluppano un profondo bisogno psicologico di essere considerati e trattati dagli altri come persone capaci di gestirsi autonomamente; si risentono e respingono le situazioni in cui hanno la sensazione che gli altri stiano imponendo loro la propria volontà. Alla fase di rilevazione seguono i colloqui di restituzione in cui ogni dipendente ha la possibilità di confrontarsi e ragionare sulle proprie aree di forza e sugli eventuali punti di debolezza che lo contraddistinguono; una delle conseguente maggiormente auspicabili consiste nella adesione consapevole e motivata alle molteplici e sempre più diversificate attività di formazione che, nello scenario della “knowledge economy” rappresentano il vero fattore competitivo per le imprese e l’unica fonte di valore aggiunto per gli individui in quanto persone prima ancora che come lavoratori.