Dott. Daniele Zucca – LA SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO

Il decreto legislativo 276/2003, attuativo della legge delega 30/2003, comunemente conosciuto come legge Biagi, in onore del giuslavorista che ha attivamente collaborato alla sua redazione, barbaramente assassinato dalle Nuove Brigate Rosse, ha introdotto significative novità nell’ambito del mercato del lavoro italiano.

L’intera legge Biagi si proponeva una serie di obiettivi, primo fra tutti quello di incrementare sensibilmente il tasso di occupazione generale del nostro paese.

Il decreto legislativo 276/2003, attuativo della legge delega 30/2003, comunemente conosciuto come legge Biagi, in onore del giuslavorista che ha attivamente collaborato alla sua redazione, barbaramente assassinato dalle Nuove Brigate Rosse, ha introdotto significative novità nell’ambito del mercato del lavoro italiano.

L’intera legge Biagi si proponeva una serie di obiettivi, primo fra tutti quello di incrementare sensibilmente il tasso di occupazione generale del nostro paese.

E’ necessario ricordare che nei primi mesi del 2002, secondo le statistiche di Eurostat, l’Italia deteneva il più basso tasso di occupazione generale (55,4% contro il 64% della media U.E.), il più basso tasso di occupazione femminile (il 41,9% contro il 54,9% della media U.E.), uno dei più bassi tassi di occupazione maschile (il nostro paese era al penultimo posto con il 64,9% rispetto al 73% della media U.E.), un bassissimo tasso di occupazione di lavoratori cosiddetti anziani, ovvero lavoratori fra i 55 e i 64 anni di età (il 28,6% rispetto a una media U.E. del 38,3%) e di lavoratori di giovane età, compresi fra i 15 e i 24 anni (il 25,7% contro la media U.E. del 40,6%), il più alto tasso di disoccupazione di lungo periodo, ossia quella riguardante lavoratori che per oltre 12 mesi non ricevono proposte di lavoro né di formazione e nemmeno l’offerta di un colloquio di orientamento professionale (59,1% a fronte del 33,4% della media U.E.); inoltre, l’Italia si segnalava per il massimo di dispersione territoriale rispetto agli altri paesi europei in termini di distribuzione dell’occupazione e per l’enorme diffusione dell’economia sommersa e del lavoro irregolare (27,1% a fronte del 18,7% della media U.E.).

Analizzando la fattispecie contrattuale della somministrazione di lavoro (art.20-28 d.lgs. 276/2003), si possono evincere le linee ispiratrici dell’intera Legge Biagi e delle finalità perseguite dai suoi ideatori.

La somministrazione di lavoro ha sostituito la normativa pregressa che disciplinava il lavoro interinale, introdotto in Italia per la prima volta con il cosiddetto Pacchetto Treu, contenuto nella legge 24 giugno 1997, n.196 e la legge 23 ottobre 1960 recante “Divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell’impiego di manodopera negli appalti d’opera e servizi”.

Il lavoro somministrato, così come già in precedenza il lavoro interinale, realizza una forma di interposizione nella prestazione di lavoro: l’impresa, anziché assumere direttamente la manodopera di cui abbisogna, si rivolge ad un’agenzia di lavoro che gliela fornisce per il tempo strettamente necessario ad eseguire determinate operazioni lavorative.

L’interposizione nelle prestazioni di lavoro è stata sempre avvertita dal mondo del lavoro come un fenomeno sociale fortemente negativo, in quanto sovente si traduceva nella lesione dei diritti posti a tutela del prestatore di lavoro: non era infrequente che l’imprenditore si assicurasse la manodopera di cui necessitava, rivolgendosi ad intermediari ed interposti poco affidabili ed insolventi.

La preoccupante diffusione di questo fenomeno nell’Italia del secondo dopoguerra aveva indotto il legislatore a stabilire con la legge 23 ottobre 1369/1960, risultato dei lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dall’onorevole Leopoldo Rubinacci sulle condizioni dei lavoratori in Italia, il divieto assoluto di qualsiasi forma d’interposizione nelle prestazioni di lavoro.

Bisogna ricordare che la legge 1369/1960 presupponeva un’organizzazione imprenditoriale fortemente accentrata, che svolgeva normalmente al suo interno l’intero ciclo produttivo, trasformando le materie prime nel prodotto finale, secondo le regole di quello che è conosciuto come modello fordista-taylorista; il lavoratore subordinato che vi trovava impiego era poco professionalizzato, di qualifica medio-bassa, il cosiddetto operaio-massa della grande impresa industriale, destinato a stare alle dipendenze del medesimo datore di lavoro potenzialmente per tutta la vita.

Questo modello organizzativo subì un radicale mutamento a partire dagli anni 70′, quando in Italia iniziò a prendere forma la terza rivoluzione industriale; la peculiarità del nuovo assetto organizzativo che iniziava ad affermarsi nelle imprese consisteva nella tendenza ad esternalizzare progressivamente le fasi della produzione, al fine di migliorare la loro efficienza .

Ben presto, questa nuova situazione aveva spinto il mondo imprenditoriale e alcuni insigni giuslavoristi a suggerire che fosse giunto anche in Italia il momento di superare, così come era avvenuto nella maggior parte degli altri paesi europei occidentali, il rigido divieto d’interposizione nelle prestazioni di lavoro e introdurre il lavoro interinale, il quale poteva pure rivelarsi una utile risorsa per ridare fiato alla drammatica situazione dell’occupazione nel nostro paese.

Scriveva uno dei più convinti assertori delle potenzialità del lavoro interinale, Pietro Ichino, a proposito dell’eventualità che l’Italia continuasse a mantenere il divieto di cui alla legge 1369/1960 “ancora una volta il paese reale avrà mostrato di sapersi arrangiare, bene o male, in barba al “paese legale”: perché in realtà, sotto le mentite spoglie dell’appalto di servizi, il lavoro in affitto( indicandosi con questa espressione soltanto le forme di interposizione non parassitarie o fraudolente, con esclusione, quindi di ogni riferimento a caporalato, cottimismo e altre forme di interposizione parassitarie) ancorché formalmente vietato dalla legge del 1960, è già largamente diffuso anche da noi; sono sostanzialmente forme di interposizione in mere prestazioni di manodopera, ad esempio, il servizio svolto in occasione di convegni e congressi da interpreti e hostess messe a disposizione per una o più giornate da imprese specializzate in tali attività, il servizio svolto dal programmatore o analista informatico inviato dalla casa di software,la fornitura di personale per ricerche di mercato, o il servizio di guardiania armata svolto davanti alle agenzie bancarie dagli sceriffi”.

Il fronte sindacale si arroccava, invece, sulle posizioni di un radicale rifiuto all’introduzione del lavoro interinale nel nostro paese, mosso dalla preoccupazione che questa forma contrattuale avrebbe permesso “la calata al sud delle Alpi delle grandi società multinazionali del lavoro in affitto” le quali avrebbero agito “non sotto la disciplina dei contratti collettivi, ma sotto la disciplina dei contratti tipo predisposti unilateralmente dalle agenzie”: la deregulation delle relazioni sindacali sarebbe stata totale.

Inoltre, gli interpreti più critici alla sperimentazione di questa nuova tipologia di lavoro sottolineavano come il lavoro interinale avrebbe progressivamente eroso le tradizionali garanzie, poste a tutela del lavoratore, destinato a diventare “servo di due padroni”: dell’agenzia da una parte, dell’impresa utilizzatrice dall’altra.

In verità, sono evidenti i vantaggi che il lavoro somministrato assicura all’impresa che deve operare nel mercato globale e che, di conseguenza, deve dotarsi di un assetto organizzativo e strutturale assai flessibile per mantenersi competitiva: l’imprenditore riesce a realizzare un notevole risparmio sul costo del lavoro, non dovendo sobbarcarsi gli oneri retributivi, contributivi e previdenziali del lavoratore nella stessa misura di come avverrebbe nel caso assumesse direttamente i prestatori di lavoro alle proprie dipendenze, con la forma di contratti di lavoro a tempo indeterminato.

D’altra parte, sono altrettanto visibili i rischi che la diffusione generalizzata di questa forma contrattuale determini la destrutturazione di posti di lavoro stabili, con gravissime ricadute sulle condizioni complessive del mondo del lavoro.

La legge Treu, figlia della concertazione, il nuovo modo di intendere le relazioni tra le parti sociali, inaugurato con l’accordo sul costo del lavoro del luglio 1993, si proponeva di mediare tra le diverse istanze provenienti dalle imprese e dal mondo del lavoro, inserendo una “goccia d’olio” sugli ingranaggi del malandato mercato del lavoro italiano, senza, però, trascurare che il lavoro interinale, così come già il lavoro a tempo determinato, doveva fornire un ulteriore strumento per condurre il lavoratore ad ottenere il contratto di lavoro a tempo indeterminato, che restava e doveva restare nell’ottica del legislatore la figura contrattuale principale del mondo del lavoro.

La legge Treu tratteggiava indubbiamente il modello di una flessibilità morbida, come dimostra la circostanza che veniva prevista una serie tassativa di casi in cui si poteva ricorrere al lavoro interinale ( quali la necessità di utilizzare temporaneamente lavoratori in qualifiche non previste dai normali assetti aziendali o di far fronte a straordinari aumenti della produzione), ferma restando la possibilità per la contrattazione collettiva di stabilire ulteriori fattispecie nelle quali fosse ammesso l’utilizzo di lavoratori interinali.

Tuttavia, e ciò era una peculiarità della legge Treu, il lavoro interinale doveva sempre mantenere il carattere della temporaneità, non potendosi risolvere in una prospettiva di vita per il lavoratore: di qui il divieto, sancito con la nullità, di tutte quelle clausole volte ad impedire che il prestatore di lavoro fosse assunto stabilmente presso l’impresa utilizzatrice, al termine della missione condotta per conto dell’agenzia di lavoro.

La legge Biagi nasce con caratteri totalmente diversi rispetto alla legge Treu, di cui dispone l’integrale abrogazione: essa è il risultato di una legge delega, con la quale il parlamento ha incaricato il governo di ridisegnare l’intero assetto del mercato del lavoro italiano.

Per quel che concerne il contratto oggetto della nostra analisi, il legislatore introduce due forme di somministrazione: la somministrazione a tempo indeterminato e la somministrazione a tempo determinato.

La somministrazione a tempo indeterminato, che si rifà allo staff-leasing diffuso negli Stati Uniti d’America in cui molte imprese non hanno propri dipendenti ma esclusivamente quelli che vengono loro forniti dalle agenzie di lavoro, è disciplinata nell’art.20, comma 3 d.lgs. 276/2003 e si estende a una notevole serie di settori e mansioni: si va dai servizi di consulenza e assistenza nel settore informatico, ai servizi di pulizia, custodia, portineria alla gestione di biblioteche, parchi, musei, archivi, magazzini, servizi di economato.

Come emerge dal nome di questo contratto, il lavoro somministrato non ha più quale requisito intrinseco la temporaneità, ben potendo un’impresa in forza di questo istituto utilizzare solo ed esclusivamente i lavoratori fornitigli dall’agenzia di lavoro.

Accanto alla somministrazione a tempo indeterminato, la legge Biagi prevede la somministrazione a tempo determinato, ammessa a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore (art. 20, comma 4 d.lgs. 276/2003).

Si tratta della medesima clausola già prevista nel d.lgs. 368/2001 riguardante il lavoro a tempo determinato e che ha destato seri problemi interpretativi proprio per la difficoltà di delimitare la sua precisa estensione, soprattutto in relazione al contratto di lavoro a tempo indeterminato; è palese fra gli operatori del diritto il rischio che una simile clausola si riduca ad essere una scatola vuota, che legittima l’impresa a stipulare contratti a tempo determinato per le ragioni ritenute più opportune, purché non illecite né vietate espressamente dalla legge.

Questi dilemmi si ripropongono nel contratto di somministrazione, laddove l’interprete è chiamato a stabilire le diverse fattispecie in cui è possibile stipulare l’un contratto piuttosto che l’altro.

Inoltre, la legge Biagi, distaccandosi radicalmente dalla legge Treu, dispone la liceità delle cosiddette clausole di fidelizzazione, volte ad impedire che il lavoratore somministrato sia assunto alle dipendenze dell’impresa utilizzatrice, a condizione che venga corrisposta al prestatore di lavoro un’adeguata indennità.

Gli aspetti di cui si è dato sommariamente conto in questa breve esposizione dovrebbero avere fatto comprendere come la legge Biagi abbia apportato un deciso cambiamento di prospettiva rispetto alla disciplina pregressa: l’obiettivo del legislatore pare orientato esclusivamente ad inserire dosi massicce di flessibilità nel mondo del lavoro, mentre la creazione di posti di lavoro stabili viene a porsi come una possibile eventualità, e non già come il risultato finale cui deve tendere il lavoro somministrato.

Questa forma mentis reca con sé alcuni seri interrogativi, a cui pare necessario conclusivamente accennare.

Il modello di flessibilità forte, disegnato dalla legge Biagi, nel quale il lavoratore è privato delle tradizionali tutele assicurategli dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ha dei costi sociali sostenibili?

Il metodo armonico di comporre i conflitti tra le parti sociali proprio della concertazione deve ritenersi, ormai, irrimediabilmente superato, in quanto inadeguato ad affrontare le sfide della globalizzazione?

Non vi è il serio rischio che la legge Biagi si trasformi in una fonte permanente di precarietà nei rapporti di lavoro e non, invece, come era nelle intenzioni dei suoi ideatori, nello strumento migliore per modernizzare il mercato del lavoro italiano?

A nostro avviso una rivisitazione dell’intera legge Biagi può fare chiarezza e superare le vetuste posizioni ideologiche sia di coloro che vogliono conservare sic et simpliciter l’esistente sia di coloro che vogliono fare tabula rasa di tutta la normativa vigente; al contrario, la direzione da seguire ci pare sia quella di uno sviluppo sostenibile, in cui le esigenze di flessibilità giustamente richieste dalle imprese non possono essere realizzate senza creare ulteriori conflitti dotandole cioè, degli opportuni amortizzatori sia in campo previdenziale che in quello della disoccupazione.

Abbiamo la presunzione di credere che il metodo concertativo rimanga la strada obbligata per raggiungere questo obiettivo.